“Tradita dallo Stato e dalle Istituzioni: nelle aule di Tribunale del FVG siamo malvisti”

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Abbiamo incontrato una fisioterapista friulana di 40 anni, guarita dal Covid, ma ugualmente sospesa dall’attività. Vive in provincia di Pordenone e lavorava fra Udine e Pordenone. Le abbiamo posto alcune domande a cui ha risposto in cambio della richiesta di anonimato che come sempre rispettiamo essendo ligi al dovere deontologico.

Come sta vivendo questa situazione che la tiene lontana dal posto di lavoro?

“Da diversi anni avevo scelto la libera professione senza appoggiarmi ad una struttura. Il mio primo pensiero rispetto a questo mio allontanamento dal lavoro va alle persone che mi avevano scelta e con cui c’è un rapporto di fiducia costruito in molti anni. Non è stato facile comunicare che non avrei più potuto seguirli. In questo momento non posso fare altro che dedicarmi alla famiglia. Già da tempo sentivo la necessità di fermarmi e la mia natura visionaria mi imponeva di fare riflessioni profonde sull’andamento della sanità in regione e sul valore che ho sempre dato al mio ruolo professionale. Sto vivendo con serenità e consapevolezza questa situazione, avendo ben chiaro quali sono i bisogni delle persone e la difficoltà in cui si trovano i colleghi dipendenti. Devo ammettere con onestà che negli ultimi tempi trovarsi lì in mezzo, tra popolazione e servizi formali, era diventato piuttosto pesante da sostenere. Per metà della mia carriera sono stata dipendente pubblica e mi sono licenziata proprio perché ho vissuto sulla mia pelle una progressiva disumanizzazione istituzionale: ad un certo punto la burocrazia era più importante dello stato del paziente. Sono grata a tutti i colleghi dipendenti che si impegnano con cuore e umanità nello svolgere il loro lavoro, dato che prima delle procedure e dei protocolli ci sono le persone bisognose di cure e di risposte ai loro bisogni”.

 

Come fa ad affrontare la sopravvivenza visto che non guadagna da tempo?

“Mi ritengo fortunata perché ho un marito che lavora e in questo momento è lui a sostenere economicamente l’intera famiglia. Per chi è libero professionista tra poco sarà il momento di sapere quante tasse deve corrispondere. Il mio pensiero? Va alla sopravvivenza di me come imprenditrice. Ci sono dei costi fissi (tasse, contributi, commercialista, ecc.) che devono essere corrisposti. Avevo attivato un piano finanziario che mi dà un margine di copertura, forse fino all’estate. Poi ci sono i risparmi, che non possono diventare la soluzione per impedirmi di chiudere l’attività professionale. Mi chiedo spesso, invece, come far sopravvivere la mia integrità personale, dato che il provvedimento amministrativo mi impedisce di percepire uno stipendio e il mio inquadramento non mi dà accesso a nessun tipo di sostegno economico. In particolare mi chiedo quale sia il giusto insegnamento nei confronti delle generazioni future, perché qui non c’è in gioco solo il mio stipendio”.

 

Alla luce di numerose sentenze che stanno reintegrando i sanitari sospesi, anche lei pensa di avviare azioni legali?

“Ho partecipato ad un’azione collettiva e mi sto attivando individualmente. Le sentenze delle altre regioni sono un segnale che qualcosa sta cambiando. Purtroppo nella nostra regione siamo mal visti nelle aule di tribunale. Qualche tentativo è stato fatto con il risultato di condanne a spese giudiziarie sproporzionate. Come posso pensare di impugnare un provvedimento sapendo che verrò condannata ad un cospicuo risarcimento, quando già le basi del mio reddito sono state bruciate nel presente e per il futuro? In questo periodo i miei assistiti si stanno rivolgendo ad altri professionisti: non è così automatico che tornino da me, una volta reintegrata. Spero sinceramente che a livello giudiziario si attivi una riflessione profonda: sono cresciuta convinta che l’art. 1 della Costituzione sia un pilastro fondamentale della nostra società. Ora ho solo molte domande e dubbi, e percepisco una prospettiva ribaltata rispetto a quella vissuta dai miei genitori”.

 

Se non dovesse reinfettarsi, visto che l’obbligo per i sanitari prosegue fino al 31 dicembre, resterà senza lavoro altri lunghi mesi: come farà a resistere?

“Questa è una probabilità verosimile leggendo i recenti studi sulla durata e sull’efficacia dell’immunità naturale rispetto a quella indotta da vaccino. La parola resistere non mi è mai piaciuta, mi porta ad un vissuto corporeo di rigidità (mi perdoni il richiamo professionale). Sono costretta già da ora a valutare se continuare o meno a fare la fisioterapista in futuro. In questo momento la vedo così: lo Stato, attraverso l’Ordine professionale, non mi autorizza a fare il lavoro per cui ho studiato per metà della mia vita e per il quale ho investito molto tempo e denaro. Mi sento tradita e abbandonata dalle stesse istituzioni a cui pago le tasse, punita per non aver obbedito, messa ai margini come le streghe nel Medioevo. Come farò a resistere? La mia motivazione va oltre lo stipendio: il pensiero di tutte le persone con eventi avversi da vaccino che, come me, sono degli invisibili lasciati soli nella loro difficoltà mi fa arrabbiare e aumenta il senso di ingiustizia di cui tutti, in un modo o in un altro, siamo vittime. Fin dall’inizio ho sostenuto che nessuno sarebbe uscito vincitore da questa situazione. É solo questione di tempo, purtroppo. Qualcuno sta iniziando ad accorgersene a caro prezzo”.

Lei ha deciso di non vaccinarsi: perché?

“Rispetto a questo farmaco sperimentale ho avuto fina da subito delle perplessità e la mia decisione è maturata nel tempo. Dopo l’infezione Covid-19 ho avuto una complicanza e mi sembrava prematura e immotivata l’indicazione assoluta di effettuare il trattamento farmacologico mentre stavo periodicamente male. Ho semplicemente aspettato e osservato. Non lo sentivo eticamente giusto e, lo ammetto, avevo paura degli effetti avversi negati con forza fin da subito. La vita non è fatta solo di lavoro: qui in Italia le donne della mia età si trovano a dover crescere i figli e accudire i genitori anziani e io mi trovo esattamente in questa posizione. Ho a cuore la mia salute, il mio benessere e l’impatto sociale della mia presenza in famiglia e nella comunità in cui vivo. Quando sono emerse le posizioni rigide degli hub vaccinali ho capito che non ci sarebbe stata nessuna possibilità di scelta da parte mia: la decisione sul rapporto rischio/beneficio era già stata presa, indipendentemente dal mio stato di salute. Senza possibilità di dialogo. Alcune persone mi hanno raccontato le loro storie, al limite dell’assurdità. Ho deciso che preferivo sacrificare il lavoro piuttosto che la salute. In fin dei conti il lavoro si può cambiare, la salute una volta persa lascia sofferenza e rimpianti”.

Nonostante i sempre più numerosi dati che vengono pubblicati in articoli su riviste scientifiche (Nature, BMJ, Lancet) relativamente alla scarsa, se non nulla protezione, e agli incrementi preoccupanti di effetti avversi anche gravi, si sta parlando in Italia di quarta dose per tutti… e probabilmente in maniera coatta: le i come valuta questo scenario?

“Quello che mi preoccupa è la logica dello schierarsi in contrapposizioni opposte. Qui non si tratta di avere ragione, né da una parte né dall’altra. Qualsiasi schieramento implica pro e contro e alla fine finiremo per rimetterci tutti, cittadini e professionisti. Ogni giorno di più vedo precipitare la fiducia all’interno della relazione cittadino-operatore sanitario. I cittadini stanno iniziando ad informarsi e a prendere coscienza: quando un danno ti tocca da vicino improvvisamente vedi la realtà in modo diverso. Sento che in questo scenario di sanitario c’è ben poco oggi, mentre racconto la mia storia. Quello che sto vivendo è un accanimento basato su scelte politiche: più passa il tempo e sempre meno le decisioni sono legate a un razionale scientifico. Sono preoccupata per tutte quelle persone che prima o poi si troveranno come me ad essere invisibili ed emarginate. Ogni giorno ascolto colleghi ospedalieri che non vedono l’ora di essere sospesi perché il clima sul luogo di lavoro è insostenibile”.

Ha pensato a qualche piano B, tipo cambiare lavoro o andarsene dall’Italia?

“Certamente. Per motivi familiari non posso trasferirmi all’estero, anche se ammetto che l’idea di avere una qualità di vita dignitosa è un pensiero fisso. Come già detto ho investito molto nella mia formazione, non solo come fisioterapista. Sono grata per aver creduto in me stessa e oggi mi sento di avere la flessibilità per reinventarmi. Riguardo il ‘cosa’ farò sto valutando le possibili strade. Di certo non sarà possibile restare all’interno delle professioni sanitarie se le premesse continueranno ad essere queste. Il mio pensiero finale va a chi è convinto che questa condizione ‘mi sta bene, perché me la sono meritata’ rispondo che ci sarò: ci sarò ad ascoltarli senza giudizio quando si troveranno in una situazione analoga. Semplicemente perché ci sono passata e so cosa si prova. Non lo auguro a nessuno”.

Irene Giurovich

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Il Giornale di Udine

Eredi morali del “Giornale di Udine” fondato nel 1866 da Pacifico Valussi.

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